“If you please, he doesn’t want too much press coverage!…” (Per favore, lui non vuole troppa pubblicità!…). E’ la raccomandazione che mi fa, poco prima di uscire dalla sala, un perfetto e gentile gallerista londinese. E’ il responsabile di una galleria di quadri, piccola ma ben posizionata nel cuore di Londra. Per “lui non vuole…”, non parla di un artista qualsiasi e di chissà quale suo capriccio. Per “lui” intende uno dei più grandi cantautori al mondo: Bob Dylan. Non vuole troppa visibilità.
Oltre ad essere tutto quello che sappiamo, ovvero musicista, cantautore, poeta, premio Nobel per la letteratura, anche se per lui – “Le canzoni non si leggono, si cantano, non sono letteratura”- Bob Dylan è anche un pittore e uno scultore. Questo è meno noto al grande pubblico.
Bob Dylan espone le sue opere in questa galleria, la Castle Fine Art di Londra, da circa dieci anni in maniera discreta. Non vuole che si sappia troppo. Forse per insicurezza sulle sue capacità pittoriche. Più probabile, per evitare le critiche feroci che lo accompagnano spesso nelle sue molteplici iniziative artistiche. Niente carta stampata e TV quindi. Nessuna pubblicità. E pensare che i suoi quadri, delle stampe a tiratura limitata sono belle e dai colori intensi. In contrapposizione con la sua natura schiva e un po’ malinconica, ispirate alle parole delle sue canzoni e ai suoi viaggi nei vari stati americani.
The Beaten Path, i sentieri battuti, sono il titolo della mostra di Bob Dylan. Una serie dei suoi lavori sono esposti in questa galleria, che più che altro è un’ampia stanza piena di faretti, in una strada pedonale a pochi metri da Oxford Street.
Sono dodici grafiche, un’edizione limitata, ogni copia autografata da Bob Dylan in persona, destinate a divenire la più celebre tra le sue collezioni passate. “La galleria vende le sue grafiche da addirittura dieci anni”– mi spiega il gallerista in perfetto understatement, lo stile senza enfasi tipico degli inglesi, ma con un orgoglio ben evidente.
Sono lo specchio di un’America intima, quella che Bob Dylan ha scoperto mentre viaggiava durante i suoi tour musicali, i suoi “sentieri battuti”, lontana dagli schemi dell’immaginario collettivo consumistico. I suoi dipinti, facilmente identificabili, rappresentano paesaggi autentici senza illusioni e artifizi. Reali.
Così troviamo un quadro sul Motel Blue Swallow e la sua strada. Brooklyn Heights, una bella e malinconica via alberata newyorchese. Early Morning Golden Gate Bridge che rappresenta il celebre ponte di San Francisco con la sua foschia nelle prime ore del mattino. Joshua Tree Sunrise, un’alba con il Joshua Tree, l’albero di Giosuè, una pianta originaria del Sud Ovest degli Stati Uniti. La Little Factory for Icecream, la piccola fabbrica di gelati. Little Italy, il quartiere di Manhattan. Il Manhattan Bridge, il celebre ponte rappresentato quasi con affetto, lontano dalle immagini e dagli stereotipi a cui siamo stati abituati dal cinema o dalla tv. Ha un’anima. Myrtle Avenue, un’altra via di Brooklyn molto suggestiva. New England Depot, un deposito nel New England con davanti una ferrovia. Disegna spesso le ferrovie, binari infiniti che si perdono nel paesaggio. Chiaro riferimento al suo celebre album “Slow Train Coming”, il disco di svolta del 1979. Molte vedute di campagna. Threatening Skies, i cieli minacciosi. Under the Bridge, una visuale da sotto il ponte. Il Wilton Iowa Farmyard, un’aia con davanti un’automobile d’epoca.
Da tutti i suoi quadri si capisce il suo intento. Togliere all’America che ama, quella consueta e banale immagine patinata ereditata da anni di film, serie televisive, poster e finti miti. Spogliarla di quel look da eterna cartolina a cui siamo abituati per restituirle dignità. Assieme all’anima. I suoi paesaggi non sono centri di attrazione turistica di massa. Se si pensa bene, è un compito molto arduo che solo un artista del calibro di Bob Dylan può permettersi di affrontare. Sempre con umiltà, poesia e spiritualità.
La sua tecnica pittorica non è quella dei grandi maestri. Ma a noi non ha mai interessato il semplice virtuosismo. Studiando nelle varie accademie delle Belle Arti, chiunque può apprendere la manualità e l’abilità coi pennelli. Il pensiero e le idee no però. Hanno bisogno di un cervello sofisticato e di emozioni. L’arte deve scuotere e far riflettere. E come diceva Picasso che però era un genio sia dal punto di vista tecnico che espressivo, l’artista non è un semplice decoratore di appartamenti. Deve avere delle potenti idee. Anche politiche.
Bob Dylan ci induce a pensare, con questi suoi quadri dai colori accesi, a come deve essere guardata la vera America, alla sua essenza. Con sentimento ed emozione. E tutto ciò conferma, ancora una volta, la grandezza di questo artista a tutto campo, benché celebre solo come cantautore.
E mi tornano in mente quei ricordi di quando, poco più che ventenne, mi sono recata in una delle sue ville a Malibu a Los Angeles. Sì, proprio a casa di Bob Dylan. Come ci sono arrivata? La mia compagna di banco alla scuola Superiore per Interpreti e Traduttori di Firenze, un’italo americana che risiede in Svizzera, Sabra, era arrivata da poco in Italia dalla California. Era nata e viveva a Malibu per l’appunto. Ma con la separazione dei genitori, aveva seguito a Firenze sua madre Nuri, svizzera, da giovane una splendida attrice che aveva recitato con interpreti del calibro di Charlie Chaplin.
Sabra a Los Angeles aveva stretto amicizia fin da piccola con Thea Armand, che come lavoro faceva la segretaria di Bob Dylan. Non era naturalmente l’unica segretaria del cantautore, ma faceva parte del suo entourage di collaboratori più stretti. Sabra e Thea erano rimaste sempre in contatto così che, quando ho manifestato l’intenzione di trascorrere un po’ di tempo in California, non da turista, Sabra mi ha subito indicato la possibilità di essere ospite a casa di Thea e di sua madre Marlies in un ranch a Malibu, a Topanga Canyon. E così è stato. Per oltre due mesi, sono rimasta ospite a casa di Thea. Con qualche puntata a San Francisco, San Diego, Bonita e in Sierra Nevada a Mammoth Lakes. Qui ci sono arrivata con un camion guidato dal fratello di Thea e da un suo amico.
Proprio con Thea però sono andata in una delle ville di Bob Dylan. L’occasione è stata la cena per il Thanksgiving, la festa del Ringraziamento, la più importante per gli americani.
Bob Dylan a Malibu non ha una sola villa. Possiede una collinetta con una serie di ville separate l’una dall’altra, circondate da immensi spazi di verde, un compound vicino all’Oceano Pacifico. All’ingresso una sbarra con la polizia privata controlla chi entra nella sua proprietà. A tarda sera, l’agente all’accesso scruta con attenzione dentro l’abitacolo della macchina per controllare chi fossero le tre persone a bordo, nonostante conoscesse molto bene l’auto e la targa di Thea, prima di azionare l’apertura della sbarra. Marlies, la madre di Thea, è seduta accanto a lei. Ci fa entrare.
La sicurezza è ben dispiegata vista la sua ossessione per la privacy. Nessuno può passare a meno che non sia stato precedentemente autorizzato. Pare che Dylan abbia minacciato di denunciare un funzionario della Contea di Los Angeles che voleva entrare semplicemente per dare un’occhiata alla struttura.
Bob Dylan aveva prestato una delle sue abitazioni ad un’altra sua collaboratrice, Carol Brahm, la sua segretaria storica. Quella sera avremmo trascorso la festa del Ringraziamento a casa di Carol, ovvero di Bob. Anche da qui si può capire lo spessore di questo personaggio e il suo buon cuore. Aveva usato una delle sue ville per ospitare la sua segretaria più anziana.
Apprendo con dispiacere che quella sera Bob Dylan avrebbe festeggiato a New York la festa del Ringraziamento e non sarebbe stato presente a Los Angeles nella sua proprietà. Nessuna possibilità di incontrarlo quindi. Del resto, soggiorna qui solo quando è libero dalle sue diverse attività.
Quella che ospitava Carol, era una bella villetta dal mobilio semplice e un po’ bohémienne in stile tipico californiano. Le stanze piccole ma accoglienti. Un imponente tavolo di legno troneggiava nella sala da pranzo, ben apparecchiato per la serata. Vicino, una cucina di modeste dimensioni accessoriata di tutto punto. Proseguendo attraverso il corridoio, un salottino con un grande e comodo divano rivestito di raso di seta bordeaux con sopra dei cuscini beige e diverse poltroncine con la stessa tappezzeria. Qualche specchiera tonda con la cornice brunita alle pareti assieme a dei quadri non di valore e a delle appliqués porta lampade. Fiori in vasi eleganti e candele accese sparse qua e là sprigionavano un’atmosfera d’intimità. Una delle camere da letto, semplice ma ben curata nei dettagli, era stata sacrificata come guardaroba per le borse e le giacche degli ospiti presenti, una decina in tutto. La cosa che davvero toglieva il fiato era il panorama. Aprivi una finestra e potevi vedere il blu intenso dell’oceano. Una massa d’acqua immobile e senza onde. Quella casa, come le altre, erano immerse nella natura selvaggia di Malibu con un laghetto artificiale al suo interno, proprio attaccato agli edifici, utilizzato come piscina. Di sera, in quell’abitazione, sembrava di stare sospesi come su una palafitta, protetti da eventuali ondate. Una meraviglia. Un paradiso in terra. Dalla veranda si poteva ammirare quello specchio quieto di blu profondo. Riparati e al sicuro.
Ricordo ancora la sorpresa di quel tacchino, servito con i marshmallow, dei dolcetti di zucchero a forma di cilindro. Era la prima volta che ne assaporavo il connubio, una ricetta tradizionale americana, bizzarra per un europeo. Ancora di più la gente presente alla serata. Tutta semplice, alla mano, ma con una grande conoscenza di poesia e letteratura. Gli amici più cari di Carol, qualche artista, Thea e sua madre.
La mia visita in una delle sue case a Los Angeles – allora non mi ero resa conto dell’eccezionalità e della rarità dell’evento – mi ha fatto capire meglio la sua personalità e i suoi quadri esposti in quella galleria di Londra. Il rispetto e l’amore che ha per la tradizione, per la bellezza e i suoi colori. Per i paesaggi nella loro spiritualità. L’attenzione per le persone e le cose. Per l’identità. La poesia trasferita nelle località più amene. Nei viali alberati e nei binari dei treni. Il prendere le distanze dall’America convenzionale e commerciale e dai suoi cliché. Il suo profondo attaccamento per l’America. Questo il significato dei suoi quadri: l’amore incondizionato per la sua America. Quello del poeta e del pittore.
Con la speranza che questo suo messaggio venga diffuso il più possibile e conosciuto. A dispetto delle raccomandazioni del perfetto gallerista britannico.
Ci assumiamo la responsabilità per la pubblicità data, con questo articolo, ai quadri di Bob Dylan. E ancora di più per i dettagli forniti sulla sua abitazione a Malibu. Vista la sua morbosità per la privacy non apprezzerà di certo. Non vuole gente tra i piedi. Del resto, ha dichiarato in passato: “a malapena sopporto la mia presenza…”